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Dottor Luigi Catani Specialista in Chirurgia Vertebrale


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Dottor Luigi Catani Specialista in Chirurgia Vertebrale


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APPROFONDIMENTI

Specialista nel Trattamento Chirurgico e Conservativo delle Patologie Vertebrali


Patologia vertegrale


Risolvere o migliorare la prognosi

Le affezioni della colonna vertebrale sono fra le più frequenti cause di inabilità e sofferenza. La diagnosi e le cure necessarie per queste malattie richiedono da parte del medico una competenza che non si può ricavare dai libri, nè sui banchi dell’università, ma va acquisita giorno per giorno sul campo. Al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, le conoscenze a proposito di tale patologia sono ancora molto imprecise, sia da parte dei pazienti, sia, purtroppo, anche da parte di molti operatori sanitari, siano essi medici, che terapisti della riabilitazione, o altre figure più o meno professionali (spesso meno che più).

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    Nè l’approccio mediatico è dei più felici, in quanto gran parte dell’informazione, sia sui media, che sul web, è viziata da interessi di parte talvolta mercenari, o, nel migliore dei casi, approssimativa. D’altro canto, un corretto approccio professionale non può prescindere da una appropriata informazione che il medico è obbligato a dare, ed il paziente ha il diritto di avere. Da ciò queste informazioni che vengono offerte su queste pagine web. Informazioni che non sono esaustive come potrebbe essere un trattato di chirurgia vertebrale, nè vogliono esserlo, anche per il linguaggio assolutamente non tecnico con cui vengono proposte all’attenzione del comune lettore. Mi preme sottolineare che i concetti esposti provengono dalla esperienza personale di trentacinque anni di esercizio professionale nel campo della patologia vertebrale, in uno degli Ospedali più importanti d’Italia, ed arricchita dai contatti con le più autorevoli personalità del mondo nel campo della patologia vertebrale. Mi scuso per gli errori ed ommissioni, che non possono non essere presenti; sarà grato comunque a chi apprezzerà il mio sforzo di esporre alcuni dati della mia esperienza professionale in modo chiaro ed onesto.

Quali sono le patologia trattate più spesso?

  • Deformità Vertebrali

    • scoliosi idiopatica
    • errori ed orrori
    • etiologia e patogenesi della scoliosi
    • postura e scoliosi
    • storia naturale della scoliosi idiopatica
    • tratttamento
    • tratttamento chirurgico
    • chirurgia anteriore
    • scoliosi neuromuscolare
    • scoliosi da altre etiologie
    • scoliosi dell'adulto

In questo paragrafo intendiamo parlare della scoliosi vera e propria, e cioè della scoliosi cosiddetta idiopatica – questo termine in Medicina definisce “una malattia di cui non si conosce l’origine” - e questo già chiarisce alcune delle difficoltà dell’approccio a tale affezione-.

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    Va innanzitutto fatta una distinzione fra la scoliosi idiopatica ed i cosiddetti“atteggiamenti scoliotici” (che non assumono il carattere di malattia). Altre forme di deformità vertebrale invece, pur essendo della alterazioni strutturali del rachide, sono determinate da situazioni patologiche più o meno identificabili: intendiamo riferirci alle scoliosi congenite (da malformazione vertebrale), le scoliosi collegate a malattie genetiche abbastanza rare (neurofibromatosi, Sindrome di Marfan, miopatie, etc.), le scoliosi neurogene e neuromuscolari, determinate da complessi quadri patologici del Sistema Nervoso Centrale.


    La scoliosi idiopatica rappresenta la situazione patologica che si incontra più di frequente nella pratica clinica, e che, nonostante l’apparente mistero della sua etiologia, obbedisce a leggi di comportamento abbastanza precise, le quali ci permettono di fare una diagnosi, di porre una prognosi ed instaurare una terapia che, se non adeguata ad ottenere una guarigione completa, ci consente di garantire ai giovani pazienti una colonna vertebrale con cui affrontare una vita normale, senza problemi funzionali, ed esteticamente accettabile.


    Per comprendere la scoliosi idiopatica, o almeno per cercare di comprenderla, visti alcuni suoi aspetti tuttora inspiegabili, bisogna partire da alcuni  


    CONCETTI FONDAMENTALI

    la scoliosi è una malattia;

    la scoliosi è una malattia genetica, quindi familiare;

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    pur essendo una malattia genetica, e quindi congenita, la deformità della colonna vertebrale che definiamo scoliosi non è, se non in casi rarissimi, evidente alla nascita o nei primi anni di vita: la malattia consiste infatti nella tendenza della colonna vertebrale a crescere curva;

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    la deformazione della colonna vertebrale che si determina durante l’accrescimento è molto più complessa di quanto appaia al radiogramma: alla curvatura laterale si associa una torsione vertebrale ed uno spostamento sul piano sagittale. In assenza di tali segni, valutabili solo clinicamente, non si può porre diagnosi di scoliosi idiopatica

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    c’è quindi un momento in cui si manifestano le alterazioni della statica vertebrale che caratterizzano la scoliosi: tale momento è in diretto rapporto con l’accrescimento del paziente, anche se nella maggior parte dei casi si verifica all’inizio della fase puberale, quando cioè il bambino passa dall’infanzia alla adolescenza; da ciò una prima classificazione delle scoliosi :

    • scoliosi infantili (rare)
    • scoliosi dell’adolescenza (le più frequenti)
    • scoliosi dell’adulto, o degenerative (spesso esito di scoliosi dell’adolescenza).

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    la scoliosi è, con grande probabilità, una malattia di natura neurologica, per cui la colonna vertebrale curva è solo un sintomo della malattia, ma non la malattia in sé; 

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    ogni scoliosi è provvista un proprio “quoziente di malignità”, che rende peculiare ogni caso e che rende così complicato un inquadramento della malattia. Sostanzialmente possiamo riconoscere :


    • scoliosi “benigne”, probabilmente la maggior parte delle scoliosi, che spesso passano misconosciute e che non richiedono alcun trattamento, se non, in epoca critica, di attenta osservazione, che consenta di classificarle con certezza come “benigne”;
    • scoliosi “evolutive”, che sono quelle su cui si deve intervenire per arrestarne l’evoluzione verso deformità incompatibili con una vita normale;
    • scoliosi “maligne”, spesso infantili, ad altissima evolutività (2°-3° Cobb al mese = 20° - 30° all’anno) che finiscono fatalmente sul tavolo operatorio. 

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    la scoliosi è quindi una malattia che ha un suo inizio, un decorso ed una fine: infatti, al termine della maturazione scheletrica, rilevabile alla radiografia con il raggiungimento del V° gradino dell’indice di Risser, ma che si può evidenziare anche dai dati clinici (arresto dello sviluppo in altezza del giovane p.; completamento della maturazione sessuale, etc.) la tendenza evolutiva della scoliosi, sia che si tratti di un forma benigna, che delle più maligne, si arresta definitivamente.

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    Attenzione, giunti a questo momento della vita del p., la situazione è completamente diversa: il problema non è più cercare di frenare l’aggravamento della deformità vertebrale, ma la reale possibilità da parte del p. di convivere con la sua scoliosi,che è la sua scoliosi definitiva. Se la curva non ha superato un certo limite, anche per effetto del trattamento praticato, significa che il p. può conviverci con tranquillità (che non significa dimenticarsi di avere una scoliosi). Altrimenti, cioè se la curva, in seguito ad un trattamento insufficiente, o perché osservata in ritardo, ha superato tale limite, va considerato un trattamento chirurgico

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    Non tenendo presenti questi concetti fondamentali, si va incontro a situazioni che purtroppo ancora oggi è molto comune incontrare, che inducono quanto meno a disorientamenti dei genitori, se non a gravi ripercussioni sulla salute stessa dei piccoli pazienti; per questo si può parlare di ERRORI, ma anche di ORRORI, che si incontrano purtroppo spesso nella pratica clinica.


    ERRORI

    -Interpretare come scoliosi una deviazione vertebrale evidente alla radiografia, senza cercare una conferma clinica: si dimentica infatti che l’esame radiografico riproduce la situazione vertebrale in quel momento e può quindi registrare uno spostamento temporaneo e non significativo del rachide (punto 4) - ciò si verifica quasi costantemente nei bambini-;


    -Pensare di poter correggere una scoliosi posizionando un rialzo sotto un piede, che vi sia o meno un arto più corto del controlaterale. E’ un approccio assolutamente grossolano:

    Non è assolutamente ipotizzabile che la dismetria, ed il conseguente sbilanciamento del bacino, possano essere la condizione determinante la scoliosi: abbiamo visto che essa è con ogni certezza una malattia genetica, e quindi non influenzabile da fattori esterni.


    2.      La variazione di lunghezza dell’arto così ottenuta va ad influenzare la posizione del bacino, ma non l’orientamento delle vertebre sovrastanti, ognuna delle quali è provvista di una autonomia cinetica rispetto al bacino ed alle vertebre adiacenti; inoltre, spesso, alla deformazione vertebrale in fase di strutturazione, si associa una rigidità dei legamenti o dei dischi intervertebrali, per cui tale intervento può avere effetti imprevedibili sulla statica vertebrale.


    3.      Nella quasi totalità delle scoliosi idiopatiche si assiste alla presenza di ipometria dell’arto corrispondente alla convessità della curva lombare. Un accorto esame clinico dimostra inoltre uno squilibrio del tronco dallo stesso lato. E’ quindi ipotizzabile che l’arto omolaterale alla curva lombare, essendo stato sottoposto ad un carico maggiore rispetto al controlaterale, per la nota legge di Wolff-Delpech, abbia avuto un rallentamento del suo accrescimento, da cui la dismetria. Tale fenomeno è quindi una conseguenza, e non la causa della scoliosi. E’ evidente che l’uso di un rialzo sotto il piede non solo non serva a compensare la tale situazione, ma anzi creare un maggiore sovraccarico su tale arto.


    4.      Infine, assodato che fino 2,5 cm. la dismetria è assolutamente ben compensata a livello della cerniera lombosacrale, lasciamo fare alla natura ed a quel meraviglioso meccanismo che è la costruzione della postura.


    ORRORI

    Sono situazioni in cui l’ignoranza da parte del curante si associa alla irresponsabilità, se non alla criminalità pura, se si ipotizza che siano subentrati nella decisione terapeutica criteri di natura commerciale-economica, dimenticando l’ormai obsoleto motto di Ippocrate : “Primum non nocere !”.

     -         Applicare un corsetto ad un bambino senza che siano ancora apparsi i segni patognomonici della scoliosi, ed in primo luogo la torsione vertebrale; magari in seguito ad una immagine radiografica non accompagnata da osservazione clinica del piccolo p.;


    -         Prescrivere un corsetto ad un bambino senza che si sia dimostrata l’effettiva evolutività della scoliosi: questo significa agire senza aver fatta una adeguata programmazione del trattamento.


    -         In presenza di una scoliosi già conclamata, caratterizzata da una evidente rotazione e da una curva già vicina o superiore ai 20° Cobb, affidare il piccolo p. in età evolutiva, alle cure di un fisioterapista, si tratti di ginnastica correttiva, ginnastica posturale, manipolazioni e quant’altro, mentre si tratta di una scoliosi sicuramente evolutiva, che andrebbe quindi assolutamente affrontata con un trattamento ortopedico adeguato;


    -         Applicare un trattamento ortopedico rigoroso (a base di gessi correttivi e busti ortopedici da indossare a tempo pieno, spesso prolungato per anni) ad una scoliosi modesta, con scarso potere evolutivo.E’ una cattiveria vera e propria nei confronti del giovane p., che ne riporterà dei danni psicologici per tutto il resto della sua vita.


    -         Intervenire con corsetti inadeguati, fantasiosi, mal fatti in p. affetti da scoliosi con importante carattere evolutivo, che, così trattati, finiranno per dover essere sottoposti ad una correzione chirurgica.

Perché la colonna vertebrale di un bambino per altri versi assolutamente sano ad un certo punto inizia a deformarsi, e tale deformità si accentua di pari passo al suo accrescimento scheletrico, fino a raggiungere gradi di deformazione addirittura incompatibili con una vita normale ? E' una domanda che è legittimo porsi ed a cui non è facile dare una risposta.

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    Abbiamo accennato ad una malattia genetica, e cioè di natura familiare. Questo è confermato da numero di studi basati su casistiche importanti della SRS (Scoliosis Research Society) Americana, del GES (Groupe d'Etude dela Scoliose Francese) e dal GIS (Gruppo di Studio della Scoliosi Italiano): questi studi hanno permesso di dimostrare che l'ereditarietà è certa, e può essere definita con una trasmissione di tipo dominante e di tipo multifattoriale (non legata cioè ad un solo gene). Uno dei geni coinvolti è sicuramente un gene del sesso, visto la significativa prevalenza dei sesso femminile i tutte le casistiche.

Un altro concetto ormai acquisito, è che la scoliosi idiopatica sia una malattia del Sistema Nervoso Centrale. Tale dato viene confermato dalla esperienza clinica:

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    una scoliosi, in tutto e per tutto simile alle scoliosi idiopatiche, si manifesta con costanza in alcune forme di malattia genetica del Sistema Nervoso Centrale, ed in particolar modo alcune Malattie che interessano il cervelletto o comunque i centri che controllano l'equilibrio : parliamo della Atassia di Freiderich, della malattia di Charcot- Marie-Tooth, della malattia di Dejerine-Sottas, ed altre condizioni patologiche, di natura genetica, che colpiscono il Sistema Nervoso Centrale. E’ significato osservare che tali malattie si caratterizzano, nel complesso della sintomatologia, anche da importanti disturbi dell’equilibrio. Altre affezioni neurologiche, come la paralisi cerebrale, e le malattie del midollo spinale, quali la poliomielite e la amiotrofia spinale, possono indurre anch’esse una scoliosi, che però assume dei caratteri diversi dalla scoliosi idiopatica, e va quindi inquadrata nelle scoliosi da malattie neuromuscolare. 

A questo proposito, molto interesse hanno suscitato alcuni studi condotti da ricercatori Giapponesi(Machida, Imamura,Iwaia,Yamada,Kimura) cui ha collaborato Jean Dubousset, sul ruolo della ghiandola pineale nella patogenesi della scoliosi.

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    Questo minuscolo organo, le cui funzioni non sono ancora completamente chiarite, è collocato sul pavimento del III° ventricolo del cervello, immediatamente al di sopra del ponte encefalico (in cui si collocano tutte le funzione “vegetative” dell’organismo) ed avanti al cervelletto (la cui funzione è quella di coordinare l’equilibrio del corpo). Una funzione sicura è la produzione di melatonina, ormone che serve a coordinare il ritmo fisiologico sonno-veglia.


    Tale ghiandola ha suscitato molto interesse anche in alcune religioni orientali, secondo alcune delle quali sarebbe “il terzo occhio”, con supposte funzioni esoteriche.


    Nella esperienza dei ricercatori di cui sopra, si notò (1993) che la resezione della pineale condotta sperimentalmente nei polli, determinava l’apparizione di una deformità vertebrale molto simile alla scoliosi umana. Successivamente i medesimi ricercatori praticarono la pinealectomia anche in alcuni topi, resi bipedi mediante l’amputazione degli arti anteriori. Anche in questi animali si assisteva all’apparizione di una deformazione scoliotica nel rachide. Entusiasmati da tali risultati, gli stessi ricercatori giapponesi, cui si associarono altri ricercatori coreani, canadesi etc., allargavano il campo di ricerca studiando l’escrezione della melatonina nei pazienti umani scoliotici e qualcuno cercando anche di identificare una risposta della malattia alla somministrazione della melatonina in tali pazienti. Tali ricerche non condussero a nulla di fatto. In un recente studio (2007) i ricercatori coreani concludevano : “un deficienza permanente di melatonina non è un fattore determinante nella eziologia della scoliosi degli adolescenti”. Queste conclusioni non sono del tutto definitive: ci sono altre funzioni della pineale che sono a noi sconosciute, ed in particolare la maniera in cui questa ghiandola si rapporti con altre strutture encefaliche, magari attraverso mediatori chimici. Per cui non è impossibile sperare che in un futuro non troppo lontano si potrà curare la scoliosi con delle sostanze chimiche !

La scoliosi è una malattia della postura? 

Cerchiamo innanzitutto di definire cosa si intende in fisiologia per postura.

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    La postura può essere definita come la posizione del corpo nello spazio, relativamente alla gravità cui esso è sottoposto.

    La postura può essere considerata in termini di postura statica (anatomica) o dinamica (fisiologica).

    La postura statica descrive la posizione del corpo nello spazio.

    La posizione dinamica rappresenta i controlli e le attività neuromuscolari che sono necessari per mantenere il baricentro della massa corporea nel suo supporto basale = equilibrio (In effetti, anche nella condizione apparente di postura statica di un soggetto che sta in piedi su due gambe, i meccanismi posturali lavorano costantemente per mantenere la stabilità).


    L’equilibrio è quindi un termine che descrive il controllo da parte del Sistema Nervoso Centrale (SNC) e dei muscoli sullo stato inerziale del corpo.

    Il complesso meccanismo del controllo posturale non è ancora del tutto chiaro: la sua comprensione è collegata a teorie neuromuscolari, principi di biomeccanica, ed alla comprensione del funzionamento del SNC stesso.


    I ricercatori descrivono una area di stabilità, o cono di stabilità: tale area comprende tutti i punti dai quali il corpo può ritornare alla posizione iniziale senza fare un passo o cambiando la base di supporto. Negli esperimenti in cui la base di supporto di una persona varia rapidamente ed inaspettatamente, il SNC ed il corpo hanno un problema da risolvere: vi sono in apparenza svariate maniere in cui il corpo può risolvere tale problema, e cioè potenziali contrazioni muscolari o movimenti degli arti per mantenere l’equilibrio. IL SNC semplifica questo potenzialmente complesso problema posturale, scegliendo  fra una serie di ben combinate combinazioni prestrutturate di contrazioni muscolari: le cosiddette sinergie: la sinergia prescelta è quella che risolvere nella maniera ottimale il problema.

    Le sinergie avrebbero il compito di semplificare delle situazioni nelle quali il corpo ha poco tempo (spesso nell’ordine dei millisecondi) per reagire.


    Queste sinergie assumono una importanza cruciale per la comprensione di tutti gli aspetti del mantenimento della postura, e si sviluppano precocemente durante l’infanzia.


    Studi Elettromiografici nei bambini mostrano uno sviluppo cefalocaudale di tali sinergie, con lo sviluppo primario del controllo muscolare della posizione del capo, seguito dal controllo del corpo e successivamente dal controllo dell’equilibrio complessivo del corpo.


    La maturazione delle sinergie sembra che si ottenga attraverso la maturazione del sistema nervoso del bambino, mentre la sua forza muscolare e le dimensioni del suo corpo aumentano, ed attraverso l’esperienza motoria.


    Studi Elettromiografici dimostrano che nella costruzione delle sinergie  esiste un complesso meccanismo di feedback: il corpo avverte le perturbazioni del suo equilibrio e reagisce  attraverso un feedback usando l’appropriata sinergia. Questo meccanismo di feedback delle sinergie posturali e stato definito come una “reazione posturale”.


    L’input sensoriale è quindi il più importante contributo al mantenimento della postura. Gli inputs visuali, vestibolari e somatosensoriali sono tutti coinvolti.


    Anche l’esperienza appare chiaramente avere un importante funzione nel controllo posturale: il miglioramento dei  meccanismi di mantenimento della postura dall’infanzia ai livelli dell’adulto, oltre ad essere dipendente dalla maturazione del SNC e lo sviluppo delle sinergie, può essere meglio spiegato dall’esperienza.


    Il SNC assume un ruolo determinante nel controllo posturale, come il posto dove l’imput sensoriale viene processato, l’esperienza viene conservata, e le sinergie posturali neuromuscolari sono sviluppate ed archiviate: una continua ed importante attività di inputs ed outputs del cervelletto e dei gangli basali da e verso la corteccia cerebrale (il centro degli inputs motori e sensitivi per il corpo) assicura il corretto timing e la appropriatezza delle risposte posturali. 

    Il modello di controllo centrale della postura, giunto alla sua completa maturazione, secondo le più recenti acquisizioni può essere così schematizzato:


    Il corpo umano può mantenere precisamente ed automaticamente il suo baricentro sulla sua base di supporto in una varietà di condizioni;

    Il centro del controllo posturale è nel SNC che riceve input sensoriali e trasmette output motori;

    Le sinergie posturali sono la maniera in cui il SNC, con i muscoli posturali, sviluppa soluzioni ottimali per problemi posturali potenzialmente complicati;

    L’input sensoriale assume un ruolo importante attraverso gli input visivi, vestibolari e somatosensoriali, sia nella scelta delle strategie posturali, che nel costruire il feedback e, quindi, l’esperienza con la quale un individuo modifica ed affina le strategie posturali;

    La forza muscolare e la stabilità articolare contribuiscono (nella misura in cui il corpo non presenta deficienze in tali aree) ed assumono quindi la funzione di effettori terminali degli aggiustamenti posturali.

     La maturazione di tale modello funzionale si verifica sin dalla nascita, per giungere al suo completamento al termine della maturazione scheletrica. Ulteriori e continui aggiustamenti si rendono infatti necessari per adeguare le funzioni posturali alle modificazioni del corpo che si verificano durante l’accrescimento corporeo: i periodi di maggiore attività si possono riconoscere:

    -       da zero a tre anni

    -       durante l’adolescenza.

     verosimilmente in rapporto con il  maggiore incremento dell'accrescimento corporeo che caratterizza questi particolari periodi.

    Non può essere una coincidenza il fatto che la maggior parte delle scoliosi inizino la loro evoluzione in questi stessi periodi della vita di un soggetto in accrescimento: da quanto abbiamo potuto dedurre dallo studio della etiologia della scoliosi, il rapporto fra SNC e scoliosi è strettissimo, ed è legittimo dedurre che la deformità  vertebrale sia da mettere in rapporto con un disturbo patologico che vada ad ostacolare i meccanismi complessi del controllo posturale. Sicuramente a questo punto subentrano altri meccanismi biomeccanici neuro muscolari

Cosa si intende per storia naturale di una malattia ? In pratica, così si definisce il comportamento, o, se si vuole, l’evoluzione di una malattia non sottoposta ad alcun trattamento.

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    Quello che colpisce lo studioso della materia, è la estrema variabilità di tali comportamenti: ci sono casi in cui la deformità vertebrale raggiunge un certo livello di curvatura, e si arresta spontaneamente, e dei casi in cui si assiste ad un aggravamento rapidissimo, talvolta tumultuoso, ribelle alle terapie praticate, fino a raggiungere livelli altissimi di deformità, in alcuni casi incompatibili con la sopravvivenza stessa del paziente.


    Da quanto abbiamo visto circa la eziopatogenesi della scoliosi, è chiaro che il carattere stesso del comportamento della malattia è predeterminato geneticamente: trattandosi con tutta probabilità di un “errore” nella programmazione della postura, l’importanza di tale errore determina il carattere più o meno grave della evoluzione della deformità. E’ come se un programmatore di software avesse introdotto un errore nel programma: se l’errore è trascurabile, il programma procederà più o meno bene, se l’errore è grave, andrà incontro ad un crash più o meno clamoroso.


    Il problema è che, naturalmente, al clinico manca qualsiasi possibilità di prognosi, di fronte ad un inizio di scoliosi in un bambino molto immaturo, e nella maggior parte dei casi ci si deve affidare ad una osservazione periodica molto attenta, che ci consenta di percepire i primi segni di una evoluzione, e che quindi ci aiuti a comprendere le caratteristiche di “malignità” più o meno alta della malattia.


    In questi casi, non ci si deve far prendere dal panico, e prescrivere un corsetto al primo insorgere di una curva, anche se associata ad una torsione vertebrale, segno indiscutibile che si trova di fronte ad una scoliosi “vera” e cioè strutturale, e quindi idiopatica. Ricordiamoci che esistono anche scoliosi benigne, e che l’adozione di un corsetto ci maschererà l’andamento reale della scoliosi. Rischiamo quindi di far indossare un corsetto inutile ad un bambino affetto da una scoliosi benigna, e, per di più, non avendo chiaro il carattere più o meno evolutivo della malattia, non saremo in grado di programmare un adatto trattamento. In pratica, può succedere che decideremo di interromper il trattamento magari nel momento più delicato. Quindi il ruolo fondamentale della osservazione. Naturalmente sappiamo già che esistono delle caratteristiche precise che ci consentono di porre una prognosi corretta ed iniziare precocemente un trattamento: in tali casi la precocità dell’intervento serve ad interrompere una evoluzione che potrebbe avere effetti disastrosi. Da ciò l’importanza della comprensione di alcuni principi che sono stati chiariti e che sono tuttora validi, principi che traggono la loro validità da alcuni studi che sono stati condotti sulla storia naturale della scoliosi. La ricercatrice a cui dobbiamo molte delle nostre attuali conoscenze è la dott.ssa Duval Beaupère.


    Questa ha sviluppato i suoi studi sulla relazione dell’aggravamento delle curve con l’accrescimento e la maturazione scheletrica: le è stato così possibile tracciare un grafico del comportamento caratteristico di una scoliosi. Su tale grafico ponendo sull’asse delle ascisse l’età scheletrica del paziente, e sull’asse delle ordinate i gradi della scoliosi, ha riconosciuto due momenti fondamentali: l’inizio della poussée puberale (pubarca), ed il termine della maturazione scheletrica. 

    Si definiscono così due periodi:


    un periodo prepuberale, in cui l’evoluzione è piuttosto lenta;


    un periodo puberale, in cui l’aggravamento è piuttosto rapido (d 2 fino ad 8 volte più rapido) con l’arresto della evoluzione coincidente con la fine della maturazione scheletrica individuata con il test di Risser.


    Stagnara, il Maestro Lionese, ha schematizzato la progressione secondo tre tipi di curve:

    una scoliosi infantile toracica, la più severa

    una scoliosi giovanile toracica, la più classica

     una scoliosi dell’adolescenza, lombare, la più benigna


    Lo stesso Stagnara ha realizzato uno schema a griglia, secondo il quale le varie possibilità di evoluzione vengono classificate secondo l’età ed il grado di deformità raggiunto.


    Secondo tale schema, le scoliosi fino a 30° si mostrano evolutive solo se osservate prima della pubertà, mentre al di sopra di tale limite l’evoluzione è certa, anche se rallenta con il raggiungimento della maturazione scheletrica. Le scoliosi oltre i 50° hanno una evoluzione severa, e possono peggiorare anche da adulto.

    Bisogna naturalmente sottolineare come tali schematizzazioni siano sempre da considerarsi del tutto orientative, in quanto, come ci preme evidenziare ancora una volta, ogni paziente rappresenta un caso a sé.

TRATTAMENTO

Sulla base della griglia precedente, riguardante la schematizzazione della prognosi, basata sulla età e del grado di deformità raggiunto, Stagnara ha in seguito proposto una analoga griglia, suggerendo l’indicazione al trattamento nelle diverse situazioni descritte dalla griglia prognostica.

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    Anche tale inquadramento è indicativo, forse ancora in maggior misura, pur conservando una sua validità. Va soprattutto apprezzato perché la sua concezione risale agli anni ’60 del secolo scorso, quando le cognizioni erano vaghe e contraddittorie, ogni scuola aveva i suoi orientamenti, e soprattutto nessuno si era preso la briga di fare degli studi seri su vaste casistiche. Nasceva così l’esperienza del Centro Massues di Lione, dove dominava il Maestro.

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    Pierre Stagnara era un’uomo di una intelligenza particolare, analitica, rigorosa, che non accettava compromessi. Si trovò a dirigere il Centro de Réadptation Fonctionelle des Massues, che era un Centro di Riabilitazione fondato dalla Comunité Agricole, che in Francia era molto potente, rinunciando ad una carriera di chirurgo , che aveva iniziato in ambiente universitario. Entrato in collisione con il mondo accademico, per il suo carattere fiero, da uomo di Corsica qual era, si ritirò in quello che doveva rappresentare la sua fine di chirurgo. Invece lavorò, e convinse i responsabili della Comunità Agricola a  trasformare il Centro in un vero Ospedale, con camere operatorie, stanze di degenza ed ambienti di riabilitazione. Lavorò con una staff di fisioterapisti, entusiasti, ed accolse centinaia e centinaia di medici specializzandi, e dimostrò che  era possibile creare dal nulla il Centro più prestigioso del mondo per la chirurgia vertebrale. 


    Pose le basi del trattamento delle scoliosi, e mise a punto il protocollo di trattamento che doveva essere il punto di riferimento per chiunque si volesse confrontare con tale patologia difficile e sconosciuta: il Trattamento Ortopedico Lionese.

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    Basato sulla correzione con gesso EDF (Elongation,Detotation,Flexion) che si confezionava, dopo manovre correttive, sul lettino di Cotrel.

    Venivano confezionati tre gessi successivamente, ogni 45 giorni, che venivano quindi sostituiti da un corsetto ortopedico denominato appunto corsetto Lionese, amovibile per le necessità igieniche del paziente, ma da indossare a tempo pieno fino al raggiungimento della completa maturazione scheletrica (Risser = 5)


     

Nella griglia delle indicazioni al trattamento si può osservare come questa procedura

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    venga consigliata allorché la scoliosi superi i 30°, mentre oltre i 50° di curvatura il trattamento è rigorosamente chirurgico; nei soggetti in fase prepuberale è previsto, in alcuni casi, un trattamento con mezzi ortopedici, onde procrastinare l’intervento al raggiungimento di un’età più adatta.

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    Lo schema di Stagnara, come tutte le schematizzazioni, non può essere interpretato in una maniera molto  rigida. Anzi, nel corso degli anni, in base alla esperienza personale, tale schema è stato modificato e soprattutto adattato alla situazione particolare del paziente : non esistono due pazienti eguali, non esistono due scoliosi eguali.

Le modifiche, come sono illustrate nello schema riportato qua sotto, non sembrano così importanti, ma in realtà la prospettiva delle indicazioni a trattamento ha subito un cambiamento sostanziale, soprattutto in considerazione della necessità di consentire al giovane paziente una vita quanto più possibile “normale” , evitandogli, nei limiti del possibile, eccessivi sacrifici, i quali, a questa età, incidono profondamente anche sulla formazione stessa della psiche del bambino o dell’adolescente.

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    Rispetto allo schema di Stagnara, che consigliava l’inizio del trattamento allorché la scoliosi aveva raggiunto i 30° Cobb, ed a questo punto metteva in atto il protocollo che abbiamo già ricordato : tre gessi consecutivi per complessivi quattro mesi e mezzo, seguiti dall’uso di un corsetto Lionese a tempo pieno, il nostro orientamento attuale è il seguente:


    - Iniziare l’uso del cosetto molto prima, quando la scoliosi ha raggiunto i venti gradi, ed anche prima, se c’è la dimostrazione di una reale evoluzione della curva; in questo caso però il corsetto va indossato a tempo parziale, ed in genere è sufficiente che il corsetto venga mantenuto per 12 ore al giorno. In genere sono le ore notturne, integrate da qualche ora pomeridiana, affidando spesso la gestione delle ore di corsetto allo stesso paziente, che si sente così responsabilizzato. Il vantaggio è che il trattamento ne risulta assolutamente più tollerabile e compatibile con una vita “normale”.

    - Allorché la scoliosi ha raggiunto e superato i 30° Cobb, va iniziato un trattamento a tempo pieno, perché l’evoluzione oltre tale limite di deformità diventa molto più difficile da controllare. Abbiamo però osservato che non è sempre necessario ricorrere a dei gessi di correzione: spesso un buon corsetto, preparato su di un moulage ben modellato, può essere sufficiente a controllare l’evoluzione e modellare il gibbo costale. Per le curve più rigide, molto strutturate e molto ruotate, può essere necessario un corsetto EDF di correzione; mai più di uno, visto che la correzione ottenibile con un solo gesso è più che sufficiente per passare alla contenzione con corsetto ortopedico.

    - Per le scoliosi che abbiano raggiunto e superato i 40° l’argomento si fa molto serio: abbiamo due possibilità da valutare con attenzione: 

    1. Impostare un trattamento molto impegnativo, con gessi correttivi e corsetto indossato a tempo pieno per parecchi anni: al termine del trattamento avremo ottenuto, nella migliore delle ipotesi, un arresto della evoluzione della deformità, ma la curva residua sarà sempre importante: Lo stesso discorso vale per l’aspetto estetico della colonna, in quanto il gibbo toracico e l’asimmetria del tronco sarà sempre evidente.


    2. Ricorrere ad un trattamento chirurgico, il quale ci consente :

    a.  Di abbreviare in modo drastico i tempi di trattamento: infatti, dopo l’intervento, non è previsto alcun mezzo di contenzione (busto o altro). Alla guarigione della ferita chirurgica il paziente può riprendere una vita normale, astenendosi soltanto, per i primi cinque mesi (cioè fino al completamento della fusione vertebrale) da sforzi eccessivi.

    b. Di ottenere una correzione importante, talvolta completa, della deformità vertebrale.


    Perché quindi, in questi casi, non ricorrere sistematicamente ad un trattamento chirurgico ? E’ una domanda legittima, a cui non può rispondere il chirurgo, il quale ha per impostazione professionale una analisi assolutamente asettica della questione; mentre spesso i genitori non accettano l’idea di un intervento chirurgico e sono sconvolti da questa prospettiva; né il chirurgo può forzare questa loro scelta, anche se intimamente convinto che sarebbe la migliore soluzione per il giovane paziente.

    Non bisogna infatti dimenticare che un atto chirurgico, per quanto condotto nelle migliori condizioni, nelle mani più capaci, non è scevro da possibili complicazioni. Dalle più banali alle più gravi.

    E quindi la funzione del chirurgo è quella di consigliare, illuminare i genitori sugli aspetti positivi e negativi delle loro scelte, dei costi e benefici di queste, ma non può sostituirsi ai genitori nelle decisioni definitiva.

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    Queste valutazioni valgono per una fascia di scoliosi che vanno dai 40° a 50° Cobb. Al di sopra di tale entità di curvatura, il trattamento chirurgico è d’obbligo. 

TRATTAMENTO CHIRURGICO

I principi del trattamento chirurgico della scoliosi rappresentano, paradossalmente, anche un nostro sostanziale insuccesso: per ottenere infatti una correzione stabile e permanente della colonna vertebrale deformata dalla scoliosi dobbiamo rinunciare ad una delle sue funzioni fondamentali: la mobilità.

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    Correggere la curva, ripristinare i corretti rapporti anatomici fra le strutture del tronco, che non sono solo la colonna vertebrale, ma la cassa toracica, e gli organi interni, e garantire a questa correzione una sua stabilità negli anni, evitando una degradazione del risultato ottenuto sul tavolo operatorio, è possibile solo realizzando ciò che in termine chirurgico si chiama “artrodesi vertebrale” .

    Il termine “artrodesi” in chirurgia significa ottenere una fusione delle strutture ossee di una articolazione fra di loro. In pratica, si cerca di ottenere che le due ossa si uniscano insieme e formino un osso solo, rinunciando alla possibilità di movimento che l’articolazione in condizioni fisiologiche avrebbe consentito. Questa procedura, a livello vertebrale, è resa molto complessa per la complessità delle strutture interessate (le vertebre fra di loro), ma nella sua corretta realizzazione risiede la possibilità di un risultato definitivo dall’atto chirurgico.

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    Questo principio, tuttora valido, e purtroppo, ineludibile, venne proposto da un chirurgo americano, Albee, agli inizi del secolo scorso, se pur con indicazione diverse (Tubercolosi vertebrale). Venne in seguito ripreso da un chirurgo texano, Risser, il quale negli anni ’50 propose un protocollo di trattamento chirurgico della deformità vertebrali basato su due principi:


    ·      Correzione mediante manovre realizzate su di un lettino apposito (letto di Risser), e mantenimento di tale correzione mediante un busto di gesso;


    ·      Realizzazione della artrodesi sulla colonna vertebrale mediante manovre chirurgiche agendo sulla colonna attraverso una finestra realizzata nel gesso di correzione.


    La fusione vertebrale ottenuta in questa maniera richiedeva un tempo di immobilizzazione con il corsetto gessato non inferiore ai 10-12 mesi.


    Si trattava, evidentemente, di una procedura oltremodo impegnativa e devastante, almeno dal punto di vista delle sofferenze che venivano richieste al paziente.

Tali principi di trattamento divennero lo standard per i Centri in cui si affrontava tale

chirurgia (non molti, visto l’estremo impegno assistenziale che richiedevano queste procedure), fino agli anni ’60. IL passo successivo fu legato al nome di Paul Harrington.

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    Questi era un chirurgo texano che svolgeva la sua opera in un Centro specializzato per il recupero dei pazienti affetti da esiti di poliomielite (all’epoca, pre-vaccino, una vera calamità  per la sua diffusione e la gravità degli esiti invalidanti). Harrington ebbe l’idea di stabilizzare le curve vertebrali di tali pazienti affetti da scoliosi paralitiche, mediante l’uso di un dispositivo che veniva posizionato nella concavità della curva ed applicato mediante ganci che facevano presa sulle vertebre alle due estremità della curva, e determinava una distrazione fra di esse, realizzando così una correzione, spesso ingente, delle curve. Venne quindi prodotto uno strumentario ad hoc, che comprendeva:

    una serie di uncini da inserire sulle vertebre;


    -       delle barre di varia lunghezza, provviste di una parte liscia ed una parte scanalata, scorrendo su cui gli uncini determinavano la distrazione;


    -       un analogo  dispositivo che realizzava una compressione sulla parte convessa della curva;


    -       strumenti ancillari per il posizionamento di questo presidio.

    L’associazione della artrodesi alla strumentazione di Harrington divenne quindi lo standard per il trattamento chirurgico delle scoliosi, e venne adottato universalmente nei Centri che si occupavano di tale chirurgia, compreso il Centro dei Massues dove agiva Pierre Stagnara.


    La fragilità intrinseca del montaggio, se pur associata alla fusione vertebrale, richiedeva comunque un lungo periodo di immobilizzazione in gesso, fino alla maturazione della artrodesi, che non si poteva considerare completa prima dei sei – otto mesi.

    Altri svantaggi della tecnica di Harrington riguardavano la impossibilità di realizzare un corretto allineamento della colonna sul piano sagittale. In pratica, con il posizionamento della barra, non era possibile attribuire alla colonna la giusta cifosi fisiologica o, nel tratto lombare, la corretta lordosi fisiologica.

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    In realtà la metodica di Harrington, pur se aveva aperto la strada al concetto della strumentazione vertebrale, era una metodica molto rudimentale, e soprattutto non fisiologica.

    Se ne accorsero ben presto alcuni chirurghi entusiasti, i quali, nel realizzare correzioni spettacolari mediante la distrazione sul lato concavo della curva, ebbero a constatare un’alta ed inaccettabile percentuale di complicazioni neurologiche.

    Si verificava infatti che la distrazione, agendo brutalmente sulla curva, determinava uno stiramento dei vasi sanguigni che provvedevano alla vascolarizzazione del midollo spinale, con necrosi del medesimo, e conseguente paraplegia. I pazienti quindi, avevano la schiena dritta, ma si trovavano completamente paralizzati.

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    Le successive ricerche erano quindi indirizzate alla ricerca di una strumentazione vertebrale che consentisse buone correzioni, e fosse contemporaneamente molto stabile, tanto da evitare perdite di correzione e garantire tempi di trattamento più brevi.  


    Dal 1962 ad oggi, vi è stata una continua ricerca per il perfezionamento della strumentazione vertebrale, da parte dei chirurghi dei Centri più qualificati del mondo per il trattamento della scoliosi.  


    Sono i Centri che il dott. Catani ha visitato e dove ha fatto degli stages di studio, per acquisire le tecniche di correzione colà adottate ( vedi formazione professionale nella Home page). 

In particolare, ha collaborato al perfezionamento degli strumentari proposti da Cotrel e Dubousset,

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    basati su un sistema molto complesso che aveva la funzione di distribuire le forze di correzione su più vertebre, ripristinando inoltre le curve fisiologiche sagittali.


    Mentre le forze di correzione sono distribuite su più uncini, posizionati in maniera strategica, si può attribuire alle vertebre, attraverso questi, forze rispettivamente di distrazione, compressione e, soprattutto, di derotazione. Il sistema consente delle correzioni ingenti ma soprattutto ripristinando una anatomia fisiologica.

Un decisivo miglioramento delle tecniche venne ottenuto con l’uso di viti peduncolari, che progressivamente soppiantarono l’uso dei ganci di presa sulle vertebre. ï»¿

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    Le viti peduncolari, proposte da Roy Camille negli anni ’70, penetrano nelle vertebre attraverso le strutture che collegano il corpo vertebrale con l’arco posteriore. Passano quindi lateralmente al canale che contiene il midollo spinale, e questo spiega la delicatezza e la difficoltà di tale tecnica. Che è però irrinunciabile, in quanto offre delle caratteristiche di stabilità eccezionali, tanto da consentire di lasciare il paziente assolutamente libero nel postoperatorio, evitando quindi l’uso di gesso o corsetti contenutivi. Il dott. Catani è stato il primo chirurgo ad introdurre in Italia tale metodica.

CHIRURGIA PER VIA ANTERIORE

Il dott. Klaus Zielke aveva proposto una metodica di correzione delle scoliosi per via anteriore con una strumentazione originale che migliorava notevolmente l'affidabilità della strumentazione sec. Dwyer.

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    Il dott. Catani ha adottato tale metodica nel 1983 per il trattamento chirurgico delle scoliosi, presentando al IX° Congresso GIS del 1986 una prima casistica di pazienti adulti operati con tale tecnica, estremamente complessa.

  • Colonna degenerativa


  • Traumi della colonna vertebrale


Spondilolistesi

Biomeccanica e patogenesi ragionata; rapporti con i fattori etiologici; trattamento

Il termine SPONDILOLISTESI identifica uno stato patologico determinato dallo spostamento di una vertebra rispetto al segmento sottostante. 

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    Anche se il termine (spondilo = vertebra e olistesi = scivolamento) definisce un fenomeno che si può incontrare a carico di qualsiasi segmento vertebrale, tale patologia è più frequente e, si può dire, quasi esclusivamente osservabile a carico della cerniera lombosacrale, intendendo come tale il complesso L4, L 5, S 1, in rapporto anche alla funzione biomeccanica peculiare che svolge tale struttura vertebrale.

     

    In realtà, l'entità patologica che si identifica nella denominazione "spondilolistesi", riconosce una serie di condizioni anatomopatologiche estremamente variabili fra di loro, sia come espressione clinica, che etiopatogenetica, il cui unico carattere comune è rappresentato dallo "spostamento della vertebra". 

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    Un gran numero di classificazioni sono state proposte da vari A.A., basate o sulla espressione radiografica (grado di spostamento), o sulla etiologia della condizione clinica. 

    Piuttosto che uno sterile inquadramento nosografico, si rivela assolutamente più utile ai fini della comprensione biomeccanica del fenomeno lo studio del meccanismo anatomo-patogenetico che conduce allo "spostamento della vertebra". L’interpretazione biomeccanica della patologia risulta infatti fondamentale per giungere alla programmazione di un corretto intervento terapeutico.

É fondamentale richiamare alcune particolarità anatomiche e fisiologiche della cerniera lombosacrale:

I corpi vertebrali delle ultime vertebre lombari, di forma cilindrica, ben piú robusti delle vertebre di altri distretti del rachide, sono collegati all'arco posteriore mediante due strutture "tubolari ", i peduncoli, i quali a loro volta delimitano il canale spinale, entro cui é contenuto il sacco durale, ed i forami di coniugazione, attraverso i quali fuoriescono dallo speco verbale le radici nervose;

I corpi vertebrali sono collegati fra loro mediante l'articolazione disco-somatica, rappresentata dal disco intervertebrale, solidale al tessuto osseo dei piatti epifisari dei corpi vertebrali. Tale articolazione, attraverso la struttura elastica del disco, consente dei movimenti reciproci di flesso- estensione, di inclinazione laterale, e di rotazione alle vertebre contigue, che rappresentano così il "segmento mobile", o "unità elementare di movimento del rachide". 

I limiti biomeccanici di tale articolazione sono rappresentati dalle caratteristiche di visco-elasticità del disco, e dalla integrità della sua struttura. Purtroppo, la struttura del disco é destinata ad una degenerazione spesso molto precoce: il nucleo polposo tende a disidratarsi, e quindi a riassorbirsi perdendo quindi la sua capacità di trasferire allo anulus fibrosus le sollecitazioni attribuite al disco dal carico e dagli stress del movimento. L'anulus, a sua volta, é soggetto ad una degenerazione delle sue fibre, che diventano quindi incapaci di resistere alle forze assiali e di taglio che insistono sul disco stesso.

La struttura fondamentale dell’arco posteriore, a sua volta, é rappresentata:

• da una parte laminare, che delimita la parete posteriore dello speco vertebrale, 

• da due formazioni collocate superiormente e lateralmente alle lamine, le apofisi articolari superiori

• da altre due analoghe formazioni collocate inferiormente e lateralmente: le apofisi articolari inferiori. 

Le apofisi articolari vanno ad "articolarsi" con le analoghe apofisi articolari delle vertebre sovrastante e sottostante, rappresentando così le articolazioni interapofisarie o articolazioni posteriori. Si tratta di articolazioni vere e proprie (anfiartrosi, per essere precisi), munite di superfici articolari cartilaginee, da capsula articolare e membrana sinoviale.

 

Tali articolazioni, al contrario della articolazione discosomatica, la quale ha anche un ruolo fondamentale nell'assorbimento delle sollecitazioni del carico e del movimento sul rachide lombosacrale, hanno la funzione di "guidare" e "limitare" il movimento reciproco delle vertebre. Tale funzione diviene determinante nel meccanismo articolare della cerniera lombosacrale.

Le apofisi articolari vanno ad "articolarsi" con le analoghe apofisi articolari delle vertebre sovrastante e sottostante, rappresentando così le articolazioni interapofisarie o articolazioni posteriori. Si tratta di articolazioni vere e proprie (anfiartrosi, per essere precisi), munite di superfici articolari cartilaginee, da capsula articolare e membrana sinoviale.

 

Tali articolazioni, al contrario della articolazione discosomatica, la quale ha anche un ruolo fondamentale nell'assorbimento delle sollecitazioni del carico e del movimento sul rachide lombosacrale, hanno la funzione di "guidare" e "limitare" il movimento reciproco delle vertebre. Tale funzione diviene determinante nel meccanismo articolare della cerniera lombosacrale.

Esaminiamo adesso la biomeccanica fisiologica della cerniera lombosacrale: questa é rappresentata dal complesso della IV° e V° vertebra lombare e I° vertebra sacrale.

(Mentre ideologicamente la cerniera lombosacrale dovrebbe essere rappresentata dalla L5 e dalla S1, e quindi escludere la L4, in realtà la L5 presenta una limitata articolarità, rispetto alla L4, in quanto collegata strettamente al sacro dai robusti legamenti traverso iliaci, e va considerata meccanicamente una vertebra intermedia fra la colonna lombare, la cui caratteristica è la mobilità, ed il sacro).

 

Meccanicamente, il carico che grava sulla colonna si concentra sulla L5, ed attraverso il corpo vertebrale ed il disco intervertebrale, si scarica sul sacro.

Questa struttura rappresenta, a sua volta, la chiave di volta dell'anello pelvico, a cui viene trasferito il carico attraverso le articolazioni sacro iliache; carico che finisce per distribuirsi sulle teste femorali e quindi agli arti inferiori.

É evidente la funzione fondamentale della L5 in questo complesso strutturale.

Va tuttavia evidenziata una particolarità anatomica che si rivela fondamentale per la comprensione della biomeccanica lombosacrale: il piatto superiore della I vertebra sacrale, su cui appoggia la V° vertebra lombare, presenta una evidente inclinazione rispetto al piano orizzontale. Mentre la IV° lombare si presenta orizzontale, nell'assetto fisiologico del rachide, il corpo della V° lombare assume una conformazione trapezoidale per adattarsi alla inclinazione del sacro.

 

É evidente quindi che le forze del carico fisiologico che si concentrano sulla V° vertebra lombare vanno a sommarsi in una componente obliqua, che conduce ad una forza che tende allo scivolamento in avanti della V° lombare rispetto al sacro. 

In condizioni fisiologiche normali, ad opporsi a tale forza provvede la particolare anatomia della vertebra, e piú precisamente la struttura dei peduncoli, che trasmettono alle apofisi articolari inferiori della V° lombare tali sollecitazioni, che vengono quindi scaricate sulle analoghe apofisi articolari della I^ vertebra sacrale, stabilizzando in tal modo la V° vertebra lombare.

Ai fini della comprensione della patogenesi della SPONDILOLISTESI, va considerata la particolare struttura dell'arco posteriore vertebrale.

Il peduncolo, infatti, si va a collegare all'arco posteriore inferiormente alla apofisi articolare superiore della vertebra, e superiormente alla apofisi articolare inferiore. In tale zona si identifica il cosiddetto ISTMO vertebrale, che é parte della lamina, conosciuto anche come PARS INTERARTICULARIS. 

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    Una interruzione di tale struttura (1), che si produca per effetto di una qualsiasi condizione patologica, ha per conseguenza di impedire la trasmissione delle sollecitazioni che si concentrano sul corpo vertebrale alle articolazioni interapofisarie L5-S1, consentendo così lo spostamento in avanti del corpo vertebrale, mentre il complesso dell'arco posteriore rimane collegato al sacro, ma in pratica completamente libero rispetto al corpo vertebrale di L5.

    Va a questo punto sottolineato che il corpo vertebrale non é completamente libero di spostarsi rispetto al sacro, in quanto rimane a questo collegato mediante l'articolazione disco-somatica (2). 

    Lo scivolamento si puó verificare solo allorché le sollecitazioni del carico che tendono alla migrazione anteriore del corpo vertebrale si rendono superiori alle capacitá delle strutture del disco di conservare i rapporti fra il corpo della V° lombare ed il sacro. 


    L’integrità dell’ istmo, che, come abbiamo visto, è essenziale ai fini della stabilità della L5, può riconoscere due possibilità di interruzione:

    1. per condizioni displasiche

    2. per agenti traumatici

Il tratto di passaggio lombosacrale è una delle sedi più frequentemente interessate da fatti displasici. Le manifestazioni displasiche sono rappresentate schematicamente da:

vizi di differenziazione - segmentazione 

(sacralizzazione-emisacralizzazione della L5, lombarizzazione di S1) :




(fusione somatica, barra interpeduncolare etc.) :

vizi di formazione (agenesia somatica, emispondilia, etc.), 

vizi di fusione:

Queste eveneinze peraltro risultano fra le più frequenti. I vizi di fusione si giustificano embriologicamente con la difficoltà che incontrano i nuclei di ossificazione ad unirsi fra di loro per realizzare l’integrità del segmento scheletrico: 

Tali vizi di fusione possono verificarsi sul piano mediano, e sono determinati dalla mancanza di fusione dei somiti

il difetto di fusione può interessare tutta la vertebra, realizzando una completa separazione delle due metà (spondiloschisi) :

o localizzarsi nella incompleta chiusura dell’arco posteriore, con diversi gradi di gravità, che vanno dalla presenza di una sottile schisi (spina bifida occulta) :

alla forma estrema, rappresentata dal quadro del mielomeningocele; in tale patologia si osserva l'esposizione del sacco durale attraverso l'ampia schisi del sacro:

Una particolare forma di vizio di fusione interessa la zona che collega i nuclei somatici con i nuclei dell’arco posteriore, e si localizza più precisamente nella pars interarticolaris, dando luogo alla lisi dell’istmo :

Anche tale forma di displasia assume vari caratteri di gravità, che vanno dalla presenza di una sottile soluzione di continuità (lisi), 

fino alla situazione più grave che si riassume nel quadro della spondiloptosi.

Tale forma di displasia è caratterizzata da tre elementi fondamentali: 

La verticalizzazione del sacro (1)

2. La migrazione del corpo di L5, che va a posizionarsi anteriormente al sacro (2)

3. L’agenesia dell’istmo (3)



L’importanza di tale situazione clinica chiarisce la eziopatogenesi che non può non essere displasica, anche se si manifesta con varie forme di gravità.

La displasia quindi che giustifica la lisi, o addirittura la agenesia della pars interarticularis, riconosce inoltre una indiscutibile  natura genetica. Oltre ad essere osservata spesso nello stesso gentilizio, vi sono osservazioni di una incidenza particolarmente elevata presso alcune popolazioni, quali gli esquimesi.

Nella pratica clinica, il reperto di una lesione traumatica dell’istmo, secondario cioè ad un traumatismo diretto o indiretto, è praticamente sconosciuto.

D’altro canto, l’ipotesi di una patogenesi traumatica appare plausibile considerando l’alta frequenza di spondilolistesi osservabile in atleti praticanti particolari discipline, quali i tuffatori ed i ginnasti, frequenza statisticamente ben più alta se riferita ad una popolazione normale.

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    Tale osservazione dovrebbe orientare verso una patogenesi traumatica della lisi, secondaria quindi a microtraumi ripetuti.

    La pars interarticularis è infatti soggetta alla azione traumatica da parte delle apofisi interapofisarie, particolarmente significativa se determinatasi durante l’esecuzione di un gesto atletico che richieda una violenta iperlordosi del tratto lombosacrale.

    In tali condizioni, l’apofisi articolare inferiore della vertebra sovrastante, si avvicina alla apofisi articolare superiore della vertebra sottostante, da cui è separata  dalla presenza della pars interarticularis: questa struttura è così sottoposta ad una sorta di “ghigliottinamento “ dell’istmo. Tale traumatismo ripetuto con frequenza ed energia può condurre alla frattura “da durata” dell’istmo, innescando così il meccanismo della spondilolistesi.

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    Le due ipotesi di patogenesi, da displasia genetica o microtraumatica, entrambe consolidate da ampie casistiche, non sono in contraddizione fra di loro. E’ infatti ragionevole accettare che la displasia sia molto più frequente di quanto reso evidente dalle casistiche, e che si esprima con modalità estremamente variabili:

    Oltre alla condizione della evidente agenesia della pars interarticularis, presente alla nascita, la  displasia si può esprimere infatti con un assottigliamento della regione istmica, rendendola più fragile e quindi predisposta ad una frattura in seguito ad agenti traumatici.



     


PROBLEMI BIOMECCANICI DETERMINATI DALLA SPONDILOLISTESI 

Nell’ambito di una stessa condizione patologica, si assiste spesso ad espressioni cliniche estremamente variabili, che vanno dalla assoluta assenza di sintomatologia, fino ai quadri più gravi ed eclatanti, tali da richiedere un immediato trattamento, che può essere solo chirurgico. 

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    Nell’ambito di una stessa condizione patologica, si assiste spesso ad espressioni cliniche estremamente variabili, che vanno dalla assoluta  assenza di sintomatologia, fino ai quadri più gravi ed eclatanti, tali da richiedere un immediato trattamento, che può essere solo chirurgico. 

     

    La spondilolistesi, di qualsiasi etiologia ed entità, può quindi essere asintomatica. Anche nelle sue forme displasiche,  di natura congenita, ossia presente alla nascita, essa diventa sintomatica solo in un momento ben preciso della vita, allorché cioè si rompe un equilibrio più o meno precario.  

    Dobbiamo fare una premessa: la spondilolistesi assume una importanza clinica del tutto peculiare, rispetto ad altre situazioni patologiche, in quanto interessa la cerniera lombosacrale e quindi le strutture di collegamento fra il rachide ed il bacino: la zona in cui si vanno a concentrare le sollecitazioni che la stazione eretta e le attività motorie del tronco e degli arti superiori determinano, e che attraverso la chiave di volta della cerniera lombosacrale si trasmettono sul sacro, sul bacino e quindi sugli arti inferiori. E’ naturalmente il tributo che l’”homo erectus” deve pagare, per aver assunto con la posizione eretta la sua nuova figura di “homo abilis”.  


    Tale imponente concentrazione di sollecitazioni spiega come avvenga che una situazione displasica, 

    o degenerativa, o di altra natura, che venga ad alterare le strutture deputate a tale importantissima funzione, finisca per avere dei riflessi spesso molto importanti sulla statica vertebrale.  

    La spondilolistesi finisce per diventare una situazione di instabilità vertebrale, per effetto di diverse situazioni patologiche, ma le cui manifestazioni cliniche sono sovrapponibili:

    • Nelle spondilolistesi istmiche si ha una interruzione della pars interarticularis , che può essere presente alla nascita (forme displasiche), o manifestarsi nel corso della vita, per effetto delle sollecitazioni che si vengono a concentrare sull’istmo, sottoposto tra l’altro ad una azione di “ghigliottinamento”  da parte della apofisi articolare inferiore della vertebra sovrastante e  l’apofisi articolare superiore della vertebra sottostante. L’interruzione dell’istmo ha per effetto di discaricare l’arco posteriore, mentre tutte le sollecitazioni vengono a concentrarsi sul disco intervertebrale. Questa struttura, tra l’altro nella maggior parte dei casi sottoposta a forze non di compressione, ma di taglio, in conseguenza della accentuata inclinazione del sacro (espressione anche questa della displasia), finisce per degenerare: le fibre dell’anulus dapprima si adattano allungandosi, un adattamento simile alla alisteresi, ed in seguito si frammentano  perdendo la loro capacità di mantenere uniti i corpi vertebrali e contenere adeguatamente il nucleo polposo. Questo finisce per riassorbirsi del tutto, finchè i piatti epifisari vengono a diretto contatto fra di loro. Possiamo affermare che la instabilità è un processo secondario alla spondilolistesi.  
    • Nelle spondilolistesi degenerative la degradazione delle strutture destinate a mantenere unite le vertebre, il disco intervertebrale e le articolazioni interapofisarie, oltre alle altre strutture legamentose, si verifica per effetto di fenomeni degenerativi (Fig. 7). Si crea ugualmente una situazione di instabilità segmentaria cronica, che è però primitiva, rispetto alla spondilolistesi, la quale ne è la sua manifestazione, ma non l’unica possibile. Ricordiamo che esistono anche fenomeni di retrolistesi, e di laterolistesi, come espressione di una instabilità vertebrale. 

    In ogni caso, sia che la instabilità sia primitiva, che secondaria, è questa che domina il quadro clinico, almeno nelle prime fasi della storia naturale della malattia. La sintomatologia è cioè  quella di una condizione di instabilità dolorosa del rachide lombosacrale (Fig. 8): il paziente, nel mantenere la stazione eretta, comincia ad avvertire una intensa sintomatologia lombalgica, che si attenua o scompare con il decubito. Nel corso degli anni, la clearance funzionale del rachide lombosacrale, il periodo libero  cioè fra l’assunzione della stazione eretta e l’apparizione della sintomatologia dolorosa, con obbligo a riprendere il decubito, tende a ridursi progressivamente, fino a rendere indispensabile una stabilizzazione chirurgica. 

    V’è una sola situazione clinica, in cui l’instabilità determinata dalla spondilolistesi non conduca ad un progressivo aggravamento del quadro clinico: si osserva in quelle forme di spondilite degenerativa, nelle quali si verifica una progressiva ossificazione del legamento longitudinale anteriore, e, talvolta, dello stesso disco intervertebrale. Sono quelle situazioni che raggiungono una stabilizzazione spontanea e che quindi non necessitano di alcun trattamento.  

     

    PROBLEMI NEUROLOGICI DETERMINATI DALLA SPONDILOLISTESI 

    La sintomatologia neurologica non sempre è presente: la sua apparizione può essere molto precoce, precedendo talvolta la sintomatologia lombalgica, o apparire in seguito, o non presentarsi affatto, nei quadri dominati dalla instabilità vertebrale. 

    La patogenesi della sintomatologia clinica non è univoca, e questo spiega la apparente incongruenza delle sue manifestazioni. 

    Nelle forme istmiche ( e displasiche), in realtà si assiste, per effetto della olistesi, cioè della migrazione in senso anteriore del corpo vertebrale, ad un allargamento del canale spinale: l’arco posteriore rimane posteriormente, collegato alla vertebra sottostante mediante l’articolazione interapofisaria inferiore, mentre il corpo si sposta in avanti. Tale nozione è confermata dallo studio MRI, che mostra pressoché costantemente un ampio recesso canalare (Fig. 9). E’ evidente che in tali casi la sintomatologia neurologica non può essere determinata da una azione diretta di compressione sul sacco durale, non esistendo una stenosi vera propria. La clinica conferma tale dato: non è infrequente osservare forme molto gravi di spondilolistesi, se non di spondiloptosi, ove il quadro neurologico sia assolutamente indenne. Se appaiono dei segni di sofferenza neurologica, che possono essere mono-, o pluriradicolari, se non assumono addirittura un quadro di sofferenza della cauda equina, la patogenesi va riferita : 

    • o ad un problema di stenosi foraminale, determinata dalla alterazione progressiva dei forami di coniugazione che possono giungere alla obliterazione pressoché completa, strozzando le radici; 

    • o ad un problema di trazione diretta sulle radici nervose, determinato dalla migrazione progressiva del corpo vertebrale che le radici nervose non riescono a seguire; 

    • o a problemi di alterazione della vascolarizzazione delle stesse radici nervose, che possono essere determinati da ischemia secondaria ad una trazione abnorme sulle arterie afferenti, o da una quadro di stasi venosa, per ostacolo diretto al circolo venoso. 

    • Nelle forme degenerative si assiste al fenomeno inverso: in questa situazione patologica è l’intera vertebra che si sposta relativamente alla vertebra inferiore, determinando un quadro di ghigliottinamento vero e proprio del canale spinale, che si esprime con una stenosi localizzata alla regione della spondilolistesi (Fig. 10). Tale situazione è aggravata dai processi degenerativi a carico delle articolazioni interapofisarie, che hanno condotto ad una loro ipertrofia, associata ad ipertrofia dei legamenti (Fig. 11). Si associa altresì la degenerazione del disco intervertebrale il quale , avendo perso le sue caratteristiche meccaniche, si collassa, protrudendo all’interno del canale. La sintomatologia clinica è quindi quella di una stenosi canalare vera e propria, nella quale si associano meccanismi di compressione diretta sul sacco durale e sulle strutture nervose, a fenomeni di natura vascolare, sia ischemici, che di stasi venosa. 


    PRINCIPI DEL TRATTAMENTO CHIRURGICO 

    Il trattamento della spondilolistesi deve necessariamente essere  impostato alla risoluzione delle condizioni che dominano il quadro clinico, che abbiamo brevemente esaminato. 

    Innanzitutto va ribadito che il trattamento può solo essere chirurgico, e si può affermare che tutte le spondilolistesi vanno operate: si può scegliere se operarle precocemente, onde garantire al paziente una “restitutio ad integrum” tale da consentirgli di affrontare una vita normale, o decidersi all’intervento allorché la situazione dolorosa lombalgica, o il quadro neurologico rendano impellente affrontare il problema. Tutte le spondilolistesi vanno operate perché tutte le spondilolistesi prima o poi si scompensano (tranne quelle forme collegate a fenomeni osteoproduttivi cui abbiamo accennato), ed i rimedi di natura conservativa o riabilitativa hanno solo la funzione di procrastinare la decisione operatoria. 

    Il trattamento chirurgico deve rispondere a due imperativi: 

    • Risolvere il problema della instabilità vertebrale; 

    • Risolvere il problema della sintomatologia neurologica


    Associata a questi due ordini di problemi, v’è la questione se ridurre o meno la olistesi, se cioè mettere in atto delle manovre chirurgiche, utilizzando delle strumentazioni particolari, per raggiungere una normalizzazione dei rapporti fra le vertebre: a nostro parere, non sempre questo è necessario e vedremo perché. 

    Risolvere il problema della sintomatologia neurologica: è questo il problema più importante, che rende questa chirurgia così delicata e difficile, e che domina le nostre scelte chirurgiche. Innanzitutto, la presenza di una sintomatologia neurologica obbliga ad un accesso posteriore, in quanto non è pensabile di risolvere i problemi di sofferenza delle strutture neurologiche senza avere una ampia e completa visione delle stesse, quale si può ottenere solo attraverso un’ampia apertura del canale per via posteriore. La tecnica chirurgica della liberazione delle strutture neurologiche non può prescindere da una precisa conoscenza della patogenesi delle varie espressioni della sintomatologia neurologica. 

    Risolvere il problema della instabilità vertebrale: una stabilizzazione vera e propria si può ottenere solo mediante una artrodesi. La necessità di affrontare la sindrome neurologica, conduce ad una scelta ben precisa, di realizzare cioè una artrodesi intersomatica. E’ evidente che non è realizzabile una solida artrodesi posteriore, o posterolaterale, allorché la nostra prima cura è stata quella di rimuovere tutte le strutture posteriore, al fine di liberare completamente le strutture neurologiche interessate. L’artrodesi deve quindi essere quindi intersomatica, e realizzata per via posteriore. E’ infatti impensabile di sottoporre il paziente ad un doppio accesso chirurgico, quando attraverso la via posteriore è possibile di realizzare al meglio sia la liberazione delle strutture neurologiche, che una solida artrodesi intersomatica.  L’artrodesi intersomatica è inoltre la scelta di eccellenza: 

    • Essa è più solida, in quanto la superficie di affrontamento dei corpi vertebrali è molto ampia e garantisce la realizzazione di una massa di artrodesi di tutto rispetto; 

    • È più logica, in quanto è sul corpo vertebrale che si va a scaricare il 90 % delle sollecitazioni meccaniche (Kummel); 

    • È la più teoricamente corretta, in quanto è in corrispondenza del corpo vertebrale, e più precisamente in corrispondenza del suo margine posteriore, che si va ad identificare il centro di rotazione istantaneo del segmento mobile vertebrale (Fig. 12). 


    TECNICA 

    LIBERAZIONE DELLE STRUTTURE NEUROLOGICHE 

    Scheletrizzate opportunamente le doccie paravertebrali, si reperta l’arco posteriore della vertebra olistesica, che va liberato ampiamente, fino all’apice dei processi traversi bilateralmente, ponendo quindi la massima cura per isolare i massicci articolari. Nelle diverse situazioni patologiche anche il reperto operatorio si differenzia e così le manovre chirurgiche a cui l’operatore deve essere preparato: 

    • Nelle spondilolistesi istmiche, o displasiche, l’arco posteriore appare libero, fluttuante, collegato alle strutture adiacenti solo attraverso: 

    • o I legamenti interspinosi ed i legamenti gialli, che lo collegano all’arco posteriore della vertebra sovrastante ed all’arco posteriore della vertebra sottostante. Massima cura va posta nel liberare la giunzione L5S1, in quanto spesso è associata alla spondilolistesi una schisi del sacro più o meno ampia: qui un sottile tintorio separa la muscolatura paravertebrale dal sacco durale (Fig. 13). Tale situazione, se non identificata preventivamente ad un esame TC, o alla MRI, può indurre, durante le manovre di scheletrizzazione, a penetrare nello spazio canalare, ledendo il sacco durale. 

    • o L’articolazione interapofisaria inferiore, che collega l’arco con le apofisi articolari della vertebra sottostante, struttura che genere appaiono conformate abbastanza regolarmente. 

    • o Cranialmente l’arco della vertebra olistesica è collegato alla parte olistesica della vertebra (corpo vertebrale, peduncoli, articolari superiori collegate regolarmente con la vertebra sovrastante) da una sorta di neoarticolazione,  nella quale è evidente  la superficie di separazione fra i due segmenti della pars interarticularis, ove si può osservare la sede del movimento patologico. Spesso è presente una sorta di tessuto fibroso neoformato, nel contesto del quale sono osservabili frammenti ossei. 

    In alcune situazioni displasiche, si verifica la non esistenza di  una lisi vera e propria dell’istmo, ma si osserva una abnorme allungamento dei processi articolari,  che ha consentito la olistesi (Fig. 14). Il tempo chirurgico di accesso al canale spinale inizia quindi con la resezione completa dell’arco posteriore: è possibile rimuoverlo nella sua interezza, (la tecnica, descritta da RoyCamille, veniva da questi definita “carapace de homard” -a guscio di astice-), sezionando con grande attenzione i legamenti interspinosi ed i legamenti gialli. Durante tale manovra va verificata con attenzione l’eventuale presenza di aderenze fra l’arco posteriore ed il sacco durale, ad evitare di ledere questa delicata struttura. Rimosso l’arco posteriore si ha una piena visione del contenuto del canale. L’apertura va completata eseguendo una foraminotomia bilaterale. Questo atto richiede di sezionare alla loro base i processi articolari della vertebra inferiore. Si ha così piena luce sulle radici, che vanno isolate e protette nel corso delle manovre successive destinate alla preparazione della spazio intersomatico per la artrodesi (Fig. 15). Nelle spondilolistesi degenerative, la scheletrizzazione, che va condotta con eguale scrupolo fino alle apofisi traverse, avviene con maggiore difficoltà, per effetto dei fenomeni degenerativi che conducono ad uno stravolgimento della anatomia. Le spinose appaiono serrate le une alle altre, spesso evidenziano fenomeni di attrito fra di loro con la presenza di una neo-articolazione (S. di Baastrup); le articolazioni interapofisarie appaiono ipertrofiche mentre la superficie laminare risulta ridottissima e praticamente scomparsi gli spazi 

    interlaminari, con frequente ossificazione dei legamenti gialli. Tale situazione rende la laminectomia molto indaginosa, in quanto lo spazio fra l’arco posteriore ed il sacco durale è praticamente inesistente. Via via che si procede con la resezione dell’arco posteriore, il sacco si dilata, evidenziando la sua situazione di compressione. Ciò fa sì che la demolizione dell’arco posteriore debba procedere con estrema cautela. Spesso, è preferibile iniziare la laminectomia dalla resezione della apofisi articolari. Queste vanno asportate in toto, compresa le apofisi articolari inferiori della vertebra sovrastante, e le apofisi articolari superiori della vertebra sottostante. Solo in questa maniera si riesce ad aprire completamente i recessi laterali, liberando completamente le radici. Anche in questo caso queste vanno isolate e protette, nello scoprire la parete posteriore del disco intervertebrale. Una difficoltà che si incontra frequentemente durante tale tempo, è la presenza di un vero e proprio plesso venoso che ricopre la parete anteriore del canale spinale. Questo può ostacolare in maniera importante le manovre chirurgiche necessarie alla preparazione dello spazio intersomatico. Si può procedere, con molta cautela, a cauterizzare alcuni vasi utilizzando una coagulazione bipolare: è da tenere presente però la precarietà già esistente della vascolarizzazione a tale livello, sia per le condizioni di stenosi del canale, che per l’età dei pazienti, che spesso presentano un quadro di vasculopatia generalizzato. E’ consigliabile quindi evitare al massimo di turbare la vascolarizzazione a tale livello. 


    STRUMENTAZIONE POSTERIORE 

    La strumentazione posteriore precede il tempo di artrodesi, quanto, mediante essa, è possibile iniziare una manovra di distrazione fra le vertebra, che rende più agevole la preparazione dello spazio intersomatico.  

    La strumentazione da noi preferita, e che consideriamo il punto di arrivo di una ricerca iniziata oltre venti anni or sono, consiste nella fissazione  mono-segmentaria mediante viti peduncolari (Fig. 16), collegate da corte barre in titanio. Il materiale che abbiamo usato più estensivamente, è il sistema SCS messo a punto da Steib, come evoluzione del CD. Tuttavia, la strumentazione che attualmente utilizziamo, è rappresentata dal materiale MOSS MIAMI, proposto da Harms e  Shufflebarger, la cui prerogativa è di disporre di viti peduncolari sia nella versione poli-assiale (Fig. 17e 18), che nella versione mono-assiale.  L’utilizzo delle viti poli-assiali rende più agevole il montaggio e l’eventuale riduzione, per cui la riserviamo alle spondilolistesi istmiche di grado elevato, o alle displasiche . Lo svantaggio di tali viti, a parte il costo, che è notevolmente maggiore delle viti mono-assiali, è il loro maggiore ingombro, per cui sono da evitare nei soggetti molto magri, nei quali, per l’esiguità dei tessuti molli il materiale di osteosintesi è apprezzabile sotto la cute, il che può essere spiacevole. 

    L’inserzione delle viti è facilitata dalla possibilità di esplorare direttamente i peduncoli, attraverso l’apertura posteriore del canale. In particolare, a livello craniale, troviamo le estremità  amputate dell’istmo, e subito al di sopra di queste sono palpabili i peduncoli; a libello caudale, alla base delle apofisi articolari che abbiamo resecato, sono apprezzabili i peduncoli della vertebra inferiore. A questo punto, è consigliabile infiggere nello spazio discale un filo di Kirschner, per seguire la direzione del piatto epifisario superiore della vertebra inferiore. Questo è particolarmente valido allorché tale vertebra sia la S1, nella quale, se non posizionate correttamente, le viti peduncolari possono non trovare una solida presa. Tale vertebra infatti non presenta un peduncolo vero e proprio, e la vite può offrire una presa solo monocorticale posteriormente, ed affondare nel tessuto osseo spongioso del sacro: questa situazione favorisce una precoce mobilizzazione delle viti stesse. Un corretto posizionamento deve prevedere una presa bicorticale: le viti possono quindi raggiungere e fare presa sulla corticale anteriore del sacro, ma, meglio ancora, esse vanno orientante in maniera che la punta della vite ingaggi lo spigolo anteriore e superiore del corpo di S1 (Fig. 19). Questo punto è estremamente solido, spesso addirittura sclerotico, ed offre una presa eccezionale. Il repere va quindi infisso seguendo la direzione del piatto superiore della vertebra, ed i fori per l’alloggiamento delle viti orientati secondo una direzione leggermente convergente con questo, in maniera da raggiungere lo spigolo  anteriore e superiore del corpo di S1. La resistenza che offre il tessuto osseo alla perforazione conferma la solidità di questa porzione del sacro. Con l’esperienza, tale manovra può essere compiuta agevolmente senza l’ausilio di osservazione con l’amplificatore di brillanza. 

    La nostra precedente esperienza nell’uso del “sabot di Chopin”  (Fig. 20), che fa parte della strumentazione CD, è stata piuttosto deludente e conferma le nostre scelte attuali. Com’è noto, il “sabot di Chopin” consiste in una corta placchetta destinata alla strumentazione del sacro. Questa prevede da un lato l’inserimento della barra CD, mentre comporta due fori destinati ad accogliere due viti. Questi fori sono orientati in maniera che le due viti divergano: una è orientata in avanti verso il corpo sacrale, e l’altra è diretta lateralmente verso l’ala sacrale. Sia teoricamente, che alla realizzazione del montaggio l’impressione è di 

    una grande solidità: in pratica le due barre CD sono fissate con quattro viti divergenti. Il difetto del sistema è che le viti fanno presa, in maniera monocorticale, sul tessuto spongioso del sacro, dalle modeste qualità meccaniche. Le viti finiscono per mobilizzarsi abbastanza precocemente ed il montaggio diventa, oltre che instabile, doloroso. Per fortuna ciò avviene, in genere, dopo che l’artrodesi intersomatica abbia fuso, per cui la rimozione del materiale di osteosintesi non comporta il rischio di una pseudoartrosi,o di una recidiva della deformità. Su 15 pazienti che abbiamo operato con tale metodica, in 5 casi abbiamo dovuto rimuovere precocemente il materiale (Fig. 21). 

    I fori per l’inserzione delle viti craniali vanno preparati subito più in alto della zona di amputazione, dopo aver identificato la posizione e la direzione dei peduncoli.  

    Inserite le viti, si procede all’inserimento delle barrette nelle teste delle viti, e si esercita una modesta distrazione: va evitata una distrazione eccessiva, per non rischiare una eccessiva tensione alle radici nervose. La distrazione consente di esporre la parete posteriore del disco in maniera da procedere alla preparazione della sede della artrodesi, ed all’inserzione degli innesti ossei autoplastici dentro di questa. Qualora si intenda utilizzare delle cages, è a questo punto che va preparata la loro sede, con lo strumentario apposito (Fig. 22). 


    ARTRODESI INTERSOMATICA 

    La realizzazione della artrodesi rappresenta il tempo più importante dell’intervento, ed il successo del trattamento è direttamente collegato ad una completa consolidazione della fusione intersomatica. Ogni attenzione va quindi dedicata a questo tempo, che prevede delle manovre ben precise. 

    La parete posteriore dell’anulus fibrosus del disco va incisa praticando due fenestrature ai due lati del sacco durale: in genere tali aperture finiscono per trovarsi fra l’ascella della radice superiore, e la spalla della radice inferiore, che vanno quindi opportunamente protette. Si procede quindi alla rimozione completa del nucleo polposo, completata con l’ausilio di curettes. Il tempo successivo prevede la cruentazione dei piatti epifisari, che deve essere quanto più completa possibile. Essa va realizzata con l’ausilio di adatte curettes, ma anche di sottili scalpelli, fino ad esporre il tessuto spongioso del corpo vertebrale (Fig. 23). 

    Questo tempo va eseguito con eguale precisione anche allorché si intenda utilizzare delle cages, per l’uso delle quali è previsto, nello strumentario ancillare, dei preparatori della sede delle cages che praticano un vero e proprio tunnel nei bordi cortico-spongiosi dei corpi vertebrali. E’ buona pratica associare alla preparazione offerta da detti strumenti, una tradizionale preparazione dei piatti epifisari, onde ottenere una fusione intersomatica quanto più possibile completa.  

    Lo spazio intersomatico va quindi riempito con innesti ossei autoplastici. Questi possono essere ricavati dalla frammentazione dell’arco posteriore rimosso, ma spesso vanno integrati con innesti prelevati da un’ala iliaca, che è agevolmente raggiungibile, attraverso la stessa incisione, per via sottocutanea, fino a raggiungere il bordo esterno della articolazione sacro-iliaca, da cui accedere al margine esterno dell’osso iliaco (Fig. 24). Gli innesti vanno inseriti e pressati nello spazio intersomatico, finchè non ne sia completamente riempito. Si pratica quindi una modesta compressione, onde compattare gli innesti e bloccarli in sede (Fig. 25). 


    RIDUZIONE DELLA SPONDILOLISTESI 

    La riduzione della spondilolistesi  rappresenta un tempo non sempre indispensabile. In effetti, le finalità primarie dell’intervento sono: 

    • Stabilizzare il rachide lombosacrale 

    • Risolvere i problemi neurologici. Il ripristino dei rapporti fra le vertebre non rappresenta l’obbiettivo primario. In effetti, purché si ottenga una buona fusione vertebrale ed una soddisfacente decompressione delle strutture neurologiche, mettere in opera delle manovre, spesso difficili, o laboriose, per ottenere una riduzione della olistesi, può risultare più la ricerca di un effetto estetico radiografico, che funzionale. Spesso non si considera, tra l’altro, che le radici nervose, da anni adattate alle situazione anatomica, spesso non sono in condizioni di seguire il movimento di riduzione; durante tale tempo, le strutture vanno osservate attentamente, per verificare che non si determini una tensione eccessiva, che può essere deleteria per la funzione neurologica. 

    Vi sono tuttavia delle condizioni nelle quali la riduzione diventa indispensabile: 

    • Nelle spondilolistesi displasiche ad alto grado di spostamento: in tali casi le condizioni biomeccaniche delle cerniera lombosacrale risultano talmente alterate, che non è ipotizzabile la realizzazione di una fusione adeguatamente solida. Le superfici di contatto fra le vertebre risultano cioè ridotte al minimo, per cui ottenere un adeguato affrontamento dei piatti epifisari diventa indispensabile, per garantire una sufficiente solidità alla  artrodesi; 

    • Nelle situazioni neurologiche più importanti, nelle quali si assista ad una incarcerazione delle radici nervose nei forami di coniugazione, che non si mostrano adeguatamente aperti dopo la foraminotomia, può essere necessario ridurre la olistesi, per offrire uno spazio adeguato alle radici. 

     

    Nelle spondilolistesi degenerative, ove in genere il grado di migrazione delle vertebre risulta modesto,a nostro parere, la riduzione può essere addirittura controindicata. Le manovre infatti di riduzione possono contribuire ad alterare la vascolarizzazione, già precaria, delle strutture neurologiche, con aggravamento della sintomatologia deficitaria. 

    La tecnica della riduzione si basa su due principi fondamentali: 

    • Distrazione fra i corpi vertebrali, che deve essere necessariamente importante, e tale da aprire lo spazio reciproco, il quale risulta costantemente chiuso posteriormente. La mancata apertura dello spazio condurrebbe ad una sicura impossibilità di trazionare la vertebra posteriormente; 

    • Trazione posteriore della vertebra olistesica: la presa sui peduncoli offerta dalle viti peduncolari è tale da poter imprimere alla vertebra importanti forze di correzione. Non è raro tuttavia assistere ad un cedimento della presa, con migrazione posteriore delle viti, sotto le energiche forze che sono necessarie per la riduzione. 

     

    La distrazione, per essere efficace, va distribuita su più vertebre, per cui è preferibile posizionate due viti temporanee una o più vertebre al di sopra della vertebra olistesica, onde sfruttare un braccio di leva più lungo. Una volta posizionate tali viti (su L4 o L3, nel caso di una spondilolistesi L5S1), si determina fra esse una importante distrazione, sempre osservando di non superare i limiti di distensibilità delle strutture neurologiche. Raggiunta una distrazione tale da ottenere una sufficiente apertura fra le vertebre, si determina, sulle viti posizionate sulla vertebra olistesica, la trazione posteriore fra queste e le barre, mediante lo strumento apposito a vite senza fine, che esiste nel materiale ancillare del MOSS MIAMI. Altri strumentari consimili offrono una vite la cui testa è 

    molto più lunga e presenta una zona di frattura predeterminata, in maniera di poter ottenere la trazione posteriore mediante l’avvitamento dei dadi sulle barre, per poi spezzare la parte esuberante dopo la riduzione. Ottenuta la riduzione, si sostituisce la barra di un lato con una barra di lunghezza più corta, adeguata ad una strumentazione mono-segmentaria, mantenendo la distrazione sull’altra barra. Bloccata la prima barra sulle teste delle viti, si rimuove l’altra barra e la si sostituisce con una barra più corta, bloccando anche questa. Procedendo in questa maniera, non si perde alcunché di riduzione. ((Fig.26, 27, 28) 

     

    STRUMENTAZIONE ANTERIORE 

    Per strumentazione anteriore intendiamo l’utilizzazione di  inserti intersomatici che hanno la funzione di favorire la fusione intervertebrale, oltre a possedere indubbie caratteristiche meccaniche. Proposti all’inizio degli anni ’90, questi impianti hanno subito una evoluzione diversa, secondo i concetti di vari Autori: 

    • L’ideatore dell’uso delle cages intersomatiche è un chirurgo nordamericano, Bagby, il quale le utilizzò per la prima volta nei cavalli da corsa (1984). In seguito, in associazione con Kuslich, mise a punto quello che doveva diventare il prototipo della cages filettate: il BAK; 

    • Nel 1991 Harms proponeva l’utilizzazione di cilindretti fenestrati in titanio, da riempire di innesti ossei e da posizionare verticalmente nello spazio intersomatico ; 

    • Brantigan e Steffee nel 1991 proponevano l’uso di gabbiette in fibra di carbonio a forma di parallelepipedo, da riempire di innesti ossei, e da posizionare a coppia nello spazio intersomatico. 

     

    Il principio delle cages è molto interessante, specie in considerazione dei problemi che si determinano durante il periodo di maturazione della fusione intersomatica. In effetti, una artrodesi intersomatica non si può considerare matura prima dei cinque – sei mesi dall’intervento, e durante questo periodo la strumentazione è sottoposta a notevoli sollecitazioni, che si vanno a concentrare sulla testa delle viti, specie quelle sacrali. Tali sollecitazioni possono condurre alla rottura delle viti (Fig. 29). Inoltre, in tale periodo lo spazio intersomatico può manifestare la tendenza a ridursi, sottoposto alle sollecitazioni del carico. I vantaggi che presentano le cages sono molteplici: 

    • Migliore distribuzione del carico sulla colonna anteriore; 

    • Discarico delle sollecitazioni sulle viti sacrali; 

    • Ripristino dello spazio intersomatico; 

    • Apertura del forame di coniugazione; 

    • Ripristino della lordosi fisiologica lombare. 


    Questi aspetti positivi ci hanno indotto ad utilizzare le cages dal 1994. Pur avendo utilizzato altri impianti ( Fig 30, 31) , abbiamo dato lo nostra preferenza alle cages cilindriche, in titanio, filettate, prodotte dalla Sofamor- Danek e dalla Eurosurgical (Fig. 32). Tali presidi sono accompagnati da uno strumentario estremamente pratico, che ne consente l’impianto in pochi minuti. In effetti, una volta preparato lo spazio intersomatico, viene posizionato, lateralmente al sacco durale, un tubo di protezione, attraverso il quale si introduce una grossa punta di trapano che prepara l’alloggiamento della cage. Successivamente si introduce la cage, preventivamente riempita di innesti di osso, la quale, essendo filettata, si fissa con grande sicurezza fra i due piatti epifisari vertebrali. Si segue un analogo procedimento per inserire  la cage controlaterale (Fig 33). 

    Dopo più di cento interventi eseguiti con l’ausilio delle cages, abbiamo avuto un momento di riflessione. Questo è stato stimolato ben tre casi nei quali abbiamo osservato una sepsi profonda, che ci ha costretto alla rimozione dell’impianto di osteosintesi. Mentre il materiale posteriore è stato rimosso con la massima semplicità per via posteriore, è stato del tutto impossibile liberare il sacco durale dalle sue aderenze per raggiungere ed estrarre le cages. Abbiamo quindi dovuto programmare un secondo tempo per via anteriore, per via transperitoneale, nel corso del quale è stato possibile rimuovere le cages (che non erano inglobate nel processo di fusione) e procedere ad una revisione dello spazio intersomatico, inserendo in questo dei robusti innesti iliaci bicorticale. 

    Un ulteriore aspetto negativo dell’uso della cages è rappresentato dalla necessità di manipolare in maniera importante il sacco durale e le radici nervose, per poter posizionare il tubo attraverso il 

    quale preparare l’alloggiamento ed inserire le cages. Abbiamo osservato con qualche frequenza una lesione del sacco (anche se prontamente riparabile, così che non abbiamo dovuto lamentare alcun caso di fistola liquorale), ed un caso di sindrome della cauda equina, con paralisi di S1, S2, S3. Si trattava di una paziente di sessantatre anni, operata per una spondilolistesi degenerativa L4L5. In tale paziente l’intervento non presentava alcuna difficoltà, sennonché nel postoperatorio è insorta progressivamente una paralisi degli sfinteri ed anestesia a sella, non regredita che parzialmente. Abbiamo attribuito tale complicanza ad un incidente vascolare, da cui pensiamo non sia estranea la manipolazione importante che ha dovuto subire il sacco durale per l’inserzione delle cages.  . 

    (Non va tralasciato un ulteriore elemento negativo dell’uso delle cages: l’aspetto economico, in quanto il loro costo incide sensibilmente sul costo globale dell’intervento). 

    Abbiamo quindi proceduto ad una revisione della nostra casistica di pazienti operati con la semplice artrodesi con innesti iliaci, ed abbiamo verificato la perfetta fusione in tutti i casi, osservando un numero insignificante di cedimenti del materiale posteriore di osteosintesi. 

    Questa esperienza ci ha portato ad interrompere l’uso delle cages. 


    COMPLICANZE 

    Il tasso di complicanze che abbiamo osservato nella nostra casistica (240 casi) di pazienti operati mediante le tecniche illustrate (artrodesi intersomatica eseguita per via posteriore, con l’uso costante di mezzi di osteosintesi posteriori e solo parzialmente con cages intersomatiche) si manifesta piuttosto modesto e del tutto accettabile. 

    Complicanze collegate alla ferita chirurgica: 

    • Sepsi superficiale, guarita senza necessità di ripresa chirurgica = 23 (10 %) 

    • Sepsi profonda che ha richiesto la rimozione del materiale di osteosintesi =  5 ( 2 %) 

    • Ematoma sottocutaneo (nei casi con prelievo iliaco) = 8 ( 3 %) 

     

    Complicanze di natura neurologica 

    • Sindrome della cauda con paralisi degli sfinteri =  1 ( 0.4 %) 

    • Lesione del sacco durale = 12 ( 5 %) 

    • Radicoliti postoperatorie = 15 ( 6 %) 

     

    Complicanze collegate alla osteosintesi posteriore 

    • Rottura delle viti precoce con necessità di ripresa = nessuna 

    • Rottura delle viti successiva alla fusione vertebrale = 18 ( 7.5 %) 

    • Intolleranza al materiale di osteosintesi (Sabot di Chopin) = 5 ( 2 %) 

     

    Complicanze collegate alla fusione vertebrale 

    • Pseudoartrosi = nessuna 

    Complicanze collegate alle cages intersomatiche 

    • Dislocazioni = nessuna 

    • Sepsi profonda = 3 ( 1.2 %) 

     

    Come si può osservare, la strumentazione posteriore  offre modeste occasioni di complicanze. Così pure la manipolazione delle strutture nervose: va osservato che piccole lesioni, subito riparate, del sacco durale si sono osservate per lo più nei pazienti operati con le cages, come pure la più grave complicanza che abbiamo osservato, la sindrome della cauda equina. 

     

    CONCLUSIONI

    Per molti anni, il trattamento chirurgico delle spondilolistesi ha rappresentato per noi un problema che sembrava irrisolvibile. Dall’epoca dell’intervento di Gill (la semplice rimozione dell’arco posteriore), dei primi tentativi di osteosintesi con materiale di Harrington, dell’uso delle placche di Roy-Camille, della utilizzazione del sistema CD, l’obbiettivo che ci proponevamo, di ottenere una artrodesi lombosacrale solida, senza bloccare del tutto la colonna lombosacrale, restituendo alle strutture neurologiche la loro funzionalità, sembrava irraggiungibile. L’artrodesi posterolaterale, anche se sostenuta da lunghe strumentazioni, o non era adeguata, favorendo ritardi o il fallimento della fusione vertebrale, o impediva un sufficiente approccio alle strutture endocanalari.  La tecnica cui siamo pervenuti, e che abbiamo illustrato in questo studio, ci sembra aver raggiunto finalmente un livello di sicurezza e di efficacia molto soddisfacente. In effetti, il sacrificio della mobilità di un segmento lombosacrale, attraverso un sacralizzazione indotta chirurgicamente, ci sembra una limitazione assolutamente accettabile, in vista dei vantaggi offerti sul piano clinico e della ripresa funzionale dei pazienti. La quasi totalità dei quali ha ripreso una vita normale; molti hanno ripreso una attività sportiva a livello agonistico, alcuni a livello professionale. Molte pazienti di sesso femminile hanno avuto gravidanze del tutto fisiologiche, ad hanno potuto accudire alla famiglia ed ai propri figli senza problemi.  Pensiamo che questi risultati rappresentino il motivo di soddisfazione maggiore per qualsiasi chirurgo. 

     

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    FIGURE 

     

    Fig. 1: Meccanismo patogenetico della olistesi: sotto le sollecitazioni determinate dal carico (1), il corpo vertebrale, non più collegato all’arco posteriore per la presenza della lisi (2), essendo appoggiato su un piano inclinato, il sacro (3), viene ad essere sostenuto unicamente dal disco intervertebrale (4), il quale va incontro ad una progressiva degenerazione, con perdita della capacità di mantenere i  rapporti fisiologici. 

     

    Fig 2 : la zona dell’istmo che si presenta litica nelle spondilolistesi istmiche (lisi congenita 

    o acquisita ?!) 

     

    Fig. 3 : Il meccanismo di “ghigliottinamento” della zona istmica della vertebra, sottoposta, specie nei movimento di estensione ed iperestensione, all’impatto della apofisi articolare inferiore della vertebra sovrastante, e della apofisi articolare superiore della vertebra sottostante. 

     

    Fig 4 : Nei ginnasti vi è una altissima frequenza di spondilolisi 

     

    Fig. 5 : La orizzontalizzazione del sacro e la conseguente verticalizzazione dello spazio L5S1 favoriscono la degenerazione del disco e la olistesi 

     

    Fig. 6 : La degenerazione del disco si esprime con il suo collasso, che conduce ad un contatto diretto fra i corpi vertebrali. 

     

    Fig. 7 : La degenerazione delle articolazioni interapofisarie determina una situazione di instabilità che conduce alla spondilolistesi degenerativa. 

     

    Fig. 8 : La patogenesi del dolore lombalgico è giustificabile:  

     

    1. dalla mobilità patologica della zona della lisi; 

     

    2. dalla degenerazione discale, che conduce ad un contatto diretto fra I corpi vertebrali. 

     

     

    Fig. 9 : Nelle spondilolistesi istmiche e displasiche il canale spinale non si stenotizza, ma tende piuttosto ad allargarsi. 

    Fig. 10 : Nelle spondilolistesi degenerative l’arco posteriore si muove insieme al corpo vertebrale, determinando un “ghigliottinamento” del canale, che conduce ad una stenosi localizzata. 

     

    Fig. 11 : nelle forme degenerative, la olistesi e la degenerazione discale contribuiscono a ridurre in misura importante il canale spinale. 

     

    Fig. 12 : L’asse istantaneo di rotazione di un segmento di moto lombare si localizza, secondo White e Panjabi, in diversi punti a seconda del tipo di movimento (flesso- estensione, rotazione, inclinazione laterale): ma in ogni caso si situa in corrispondenza della colonna anteriore. 

     

    Fig. 13 : Esame TC di un paziente portatore di una grave spondilolistesi displasica. Si noti l’ampia schisi dell’arco posteriore di S1, e la frammentazione dell’arco di L5. Si note anche come il canale spinale si presenti di notevole ampiezza. 

     

    Fig. 14 : Spondilolistesi displasica caratterizzata da un abnorme allungamento delle apofisi articolari. 

     

    Fig. 15 : Laminectomia allargata alla foraminotomia bilaterale mediante la resezione delle apofisi articolari. 

     

    Fig. 16 : Schema del montaggio monosegmentario con viti peduncolari ed artrodesi intersomatica. 

     

    Fig. 17 e 18 : Le viti poliassiali dello strumentario MOSS-MIAMI 

     

    Fig. 19 : Corretto posizionamento delle viti sacrali in un caso di spondilolistesi displasica operata con materiale SCS sec. Steib e cages Novus della Sofamor. 

     

    Fig. 20 : Il “Sabot” di Chopin: il dado è destinato a bloccare la barra del CD, mentre i fori sono orientati in maniera da posizionare le viti in una direzione prefissata. La vite superiore è diretta in avanti, verso il corpo sacrale, la vite più in basso è orientata verso l’ala sacrale (sabot destro). 

     

     

    Fig. 21: C.M.G., paziente di sesso femminile di 28 anni; presenta una spondilolistesi istmica L5S1. Operata con materiale CD più il Sabot di Chopin: si noti l’orientamento divergente delle viti sacrali. Dopo tre anni dall’intervento, allorché l’artrodesi si mostra completamente fusa, e la deformità ridotta stabilmente, presenta dolore in corrispondenza del materiale di osteosintesi, che viene rimosso, con scomparsa della sintomatologia dolorosa. 

    Fig. 22 : Immagine intraoperatoria: praticata la lamino-foraminotomia, si sono applicate le viti e le barre SCS in leggera distrazione. Le frecce indicano l’apertura bilaterale dello spazio discale, in corrispondenza della spalla delle radici. 

     

    Fig. 23 : La cruentazione dei piatti epifisari dei corpi vertebrali deve essere la più completa e  scrupolosa possibile. 

     

    Fig. 24 : Immagine intraoperatoria che mostra l’accesso all’ala iliaca per il prelievo degli innesti ossei, attraverso la stessa ferita chirurgica. 

     

    Fig. 25 : Immagine intraoperatoria: lo spazio intersomatico è stato riempito di innesti ossei e viene praticata una compressione fra le viti per compattarli. 

     

    Fig. 26 : D.A.A. , Paziente di sesso maschile di 18 anni, che presenta una grave spondilolistesi displasica L5S1. Operato con materiale SCS, la riduzione si è resa necessaria per ottenere un affrontamento dei corpi vertebrali sufficiente a garantire una buona fusione. 

     

     

    Fig. 27 : C.A., paziente di sesso femminile di 28 anni. Presenta una spondilolistesi displasica L4L5, su L5 sacralizzata. Operata con materiale MOSS-MIAMI: si noti la buona riduzione e la completa fusione intersomatica. 

    Fig. 28 : C.A., soggetto di sesso femminile di 53 anni. Presenta una spondilolistesi degenerativa L4L5 con marcata stenosi del canale. E’ stata sottoposta ad artrodesi L4L5, con materiale MOSS-MIAMI, previa ampia lamino-foraminotomia. 

     

     

    Fig. 29 : B.Cr., paziente di sesso femminile di 43 anni, presentava una spondilolistesi L4L5 caratterizzata da una estrema instabilità, ed una spondilolisi L5S1. Operata di artrodesi intersomatica L4L5 ed L5S1, con materiale SCS. Dopo quattro anni dall’intervento, un controllo casuale mostrava la frattura delle viti sacrali, mentre  la fusione intersomatica appariva soddisfacente. La p. è asintomatica ed ha rifiutato di essere sottoposta a rimozione dei mezzi di sintesi 

    Fig. 30 : C.F., paziente di sesso maschile di 38 anni. Presenta una spondilolisi L5S1 molto dolorosa. Sottoposto ad intervento di stabilizzazione con materiale MOSSMIAMI e cages di Harms. 

     

    Fig. 31 : C.E., paziente di sesso femminile di 19 anni. Presenta una grave spondilolistesi displasica L5S1, che è stata ridotta e stabilizzata con materiale MOSS-MIAMI e cages in carbonio sec. Brantigan. Si notino i punti metallici di repere, in quanto le cages sono radiotrasparenti. 

     

    Fig. 32 : La cage “Novus” della Sofamor. Essa va riempita di innesti ossei, e chiusa quindi con l’apposito inserto, prima di essere posizionata fra i corpi vertebrali. 

     

    Fig. 33 : L.B.D., paziente di sesso femminile di 21 anni. Presenta una grave spondilolistesi displasica L5S1, ridotta e stabilizzata con materiale SCS e cages Novus. Si noti come sia stato necessario sagomare le barrette per inserirle nelle viti. Tale manipolazione non si rende necessaria con l’uso delle viti poliassiali. 

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